Stiamo vivendo un momento di transizione, transizione profonda, nella quale viene messa in discussione, radicalmente, la visione del mondo che abbiamo avuto fino ad adesso, che non è più coerente con la realtà corrente.

Questa mancanza di coerenza fra visione e realtà corrente comporta che gli strumenti di cui ci siamo dotati per leggere la realtà, definiti sulla base di credenze e metodologie consolidate, rischino di non essere più sufficienti per raccontare ed interpretare gli accadimenti.  Si tratta di solito di una preponderanza di metodi analitici al posto di una visione intuitiva dell’insieme, a scapito della creatività e della sintesi.

Moltissimi dati ci confermano questo. Due serie trovo particolarmente interessanti:

  1. La frequenza delle grandi crisi economiche (1929, 2000, 2007, 2009, 2011), straordinariamente aumentata, essendo passata dai 71 anni intercorsi fra le prime due, ai 7 fra la seconda e la terza, arrivando ai 2 fra le ultime tre. L’esito di tutte queste crisi è stato nefasto ricadendo in modo violento e pressoché esclusivo, in particolare per quelle del terzo millennio, sui lavoratori e sui risparmi;
  2. Le così dette “pandemie” che, curiosamente, hanno avuto andamenti analoghi. Le ultime quattro pandemie sono state previste e sono stato oggetto di puntuali allarmi da parte della OMS. Se correlassimo il dato dei decessi con quello degli investimenti effettuati dal 2001 ad oggi per contrastare le ultime quattro pandemie, otterremmo dei risultati imbarazzanti soprattutto se confrontati  con i milioni di vite umaneche quei soldi avrebbero potuto salvare, nello stesso periodo, dalla carestia.

Anno

Tipo

Decessi

1918

“Spagnola”

28.000.000

1957

“Asiatica”

70.000

1968

“Hong Kong”

34.000

2001

BSE “Sindrome della mucca pazza”

166

2003

SARS

724

2007

H5N1 “aviaria”

234

2009

H1N1 “suina”

2.910

La cosa che impressiona, analizzando queste due serie, è l’evidenza dell’incapacità di imparare dall’esperienza, che avrebbe consentito di evitare il ripetersi – quasi parossistico, quattro volte in meno di 11 anni – degli stessi errori. Ciò probabilmente perché rimetterebbe in discussione procedure obsolete ed errate, ma consolidate che stanno alla base del “sistema”.

L’incapacità di leggere la realtà in cui si vive, l’inadeguatezza degli strumenti a disposizione, l’impossibilità di prevedere gli accadimenti futuri, l’aderenza ignorante e conservatrice a metodologie errate generano ansia, insicurezza, paura.

Neil Postman, sociologo statunitense che fondò nel 1971 presso la New York University il corso “Media Ecology”, confermato anche dalla citazione di Bertrand Russell di cui sopra, ci dice che: “Le persone che per qualche motivo sono angosciate a volte preferiscono un problema che è loro familiare piuttosto di una soluzione che non lo è per nulla”.

Nel tempo in cui cambiare diviene una necessità vitale, in cui è necessario generare nuove visioni su cui impostare nuove narrazioni, l’angoscia ci porta a preferire il problema, a perpetuare una situazione, seppure insoddisfacente, ma comunque familiare, e spinge le aziende a richiedere ai propri collaboratori progetti e prodotti che ricalcano quelli esistenti, al posto di dare sfogo alla fantasia e all’entusiasmo.

Ma cosa comporta questa paura di cambiare? Ci consente di fare un altro passo avanti Luigi Zoja, economista, sociologo e psicologo analista: “La repressione permanente costa energia e irrigidisce, è una artrite della psiche. L’abitudine ad incontrare immagini non vere rende normale non provare sentimenti davanti a vere figure nuove[1]”.

Nel momento in cui la logica fa fatica a portarci da A a B, perché generata dalla stessa matrice che ha prodotto il problema, diventa fondamentale l’immaginazione e la facoltà di sintesi per andare oltre al passo-per-passo ed intuire subito la soluzione in grado di portarci dappertutto e di darci la possibilità di scoprire la città di Utopia.


[1] Luigi Zoja, La morte del prossimo, Torino, Einaudi, 2009